It’ not my job. Qualcosa non va nel mondo del lavoro.
Linkedin è la prima piattaforma al mondo dedicata al business delle professioni. Ogni giorno gli scambi raggiungono le centinaia di migliaia di messaggi.
C’è chi cerca opportunità, chi sfoggia follower come la coda di un pavone, ci sono quelli che hanno l’unico obiettivo di nutrire il proprio ego e farsi belli. C’è, poi, chi semplicemente vuole lavorare e forse non sa che nel frattempo la finalità e gli obiettivi di questo spazio sono radicalmente cambiati negli anni, andandosi purtroppo a livellare sull’offerta di altri social.
Il telemarket delle esperienze – le best practices – la bella mostra muscolare dei propri progetti, i post sempre più autoreferenziali, lo star system dei soliti noti diventati nel frattempo guru dello scrolling infinito.
Secondo la logica del real time non c’è posto e spazio per il ragionamento, per il dubbio, per il timore.C’è solo la celebrazione della scalata professionale, dei successi, dei riconoscimenti, dei premi e del credito sociale digitale. Manco fosse una puntata di Black Mirror (ricordate Nosedive?)
E a che serve? A chi serve?
Notizia di questi giorni. Courtney Summer Myers, graphic designer e illustratrice, dopo il licenziamento si è inventata il banner “desperate” sulla scia dell’Open to work, che maschera sotto un velo di pudore lo stesso identico sentimento. La disperazione e il senso di impotenza di fronte alla superficialità di un mondo in cui l’apparenza e l’immagine dominano al punto da dover contenere il disagio della propria condizione come fosse qualcosa di cui vergognarsi.
Invece no, Courtney è disperata, sconvolta, persa. E forse, dietro questo smascheramento dell’ipocrisia digitale che vuole ridurre ogni contenuto, ogni intervento, ogni idea a un effetto wow, tanto da farci sembrare comparse d’un atroce Truman Show, forse si nasconde quel momento di lucida sincerità ed emozione che può fare da apripista a modelli di comunicazione e relazione più autentici.
Già oggi cominciano ad apparire altri banner, altri meme.
Sull’onda della viralità, chissà che si possa inaugurare una riflessione sulle mancate risposte dei presunti datori di lavoro, sull’ambivalenze delle offerte, sulla pochezza degli strumenti di valutazione della ricerca delle professioni, sulla continua mattanza delle microimprese e delle partite iva. Chissà.